Medioevo e Rinascimento
Dopo gli sviluppi dell’età antica, il settore dell’oreficeria si espande nella città di Napoli a partire dall’età ducale e fino a quella normanno-sveva (X-XIII secolo) dove i monili si arricchiscono di contaminazioni con il mondo d’oltralpe e quello arabo, le cui correlazioni artistico-culturali si rafforzarono proprio nel periodo svevo con l’imperatore Federico II che emise alcuni provvedimenti per regolamentare la materia dei metalli preziosi, che stabilivano l‘obbligo ai maestri dell’arte di esplicitare la qualità dei loro manufatti che, per l’oro doveva essere non inferiore ad un valore di otto once d’oro puro per libbra e per l’argento non meno di undici once d’argento puro per libbra.
Si avviò così un percorso di legittimazione e garanzia – sia per gli operatori sia per gli acquirenti – che trovò il suo primo ufficiale consolidamento in età angioina (XIV secolo), quando il re Carlo II impose l’obbligo del punzone, che doveva garantire la qualità dei lavori ed il titolo dell’oro e dell’argento. In seguito, il 23 novembre del 1347 la Regina Giovanna d’Angiò, proseguendo sulla scia del suo predecessore concesse agli orafi napoletani di eleggere i propri rappresentanti, scegliendo tra i maestri quattro consoli, che avrebbero dovuto assolvere al compito di curare gli affari dell’arte, e di convocare, quando fosse stato necessario, l’assemblea degli iscritti. Era nata la corporazione. E non è un caso che nascesse sotto la dominazione angioina, considerato che risale al 1305 il busto reliquiario di San Gennaro fatto realizzare proprio dai re francesi, da tre orafi francesi arrivati a Napoli a seguito dei nuovi regnanti, per celebrare il millenario della decapitazione del Santo.
Realizzato interamente in argento a sbalzo o fuso e poi cesellato, inciso e dorato (per la cui patinatura l’artista francese Godey ricevette ben due libbre d’oro) e infine incastonato con numerose gemme e decorato di smalti. In pratica un palinsesto di tutte le tecniche orafe più pregiate pronte a divenire un esempio ed un modello a cui ispirarsi. A rinsaldare il ruolo, le testimonianze archivistiche confermano che già nel XIV secolo numerosi orefici scelsero per loro sede i luoghi che ancora oggi occupano la “Strada degli Orefici” dove le botteghe, di proprietà di nobili famiglie, erano concesse agli artefici con lunghi contratti di affitto, che venivano poi rinnovati ai discendenti per varie generazioni.
Il riconoscimento di tale corporazione proseguì anche nei secoli avvenire con l’avvento delle nuove dominazioni. Nel 1474 re Ferrante d’Aragona, sulla scia del padre Alfonso, aveva concesso degli Statuti vantaggiosi in cui si stabilivano le regole basilari per la lavorazione dei metalli preziosi, a partire dal consolidamento della marchiatura dei manufatti, che doveva rendere riconoscibili i gioielli creati a Napoli. Gli aragonesi favorirono inoltre la presenza di artisti provenienti da tutto il mediterraneo favorendo scambi culturali e commerciali che arricchirono il patrimonio anche del settore orafo. I monili si arricchirono di forme e di gemme preziose che vengono tra l’altro descritti e illustrati anche in un originale diario tracciato da due Orafi, Giovanni e Leonardo Ferraiolo, figli del Maestro Orafo Francesco Ferraiolo che avevano la loro bottega nel Borgo nel 1484. Dalla loro postazione rappresentano testimoni attenti dei grandi avvenimenti in corso e raccontano con minuzia di dettagli i singoli “abbellimenti” come l’ornamento principe della moda della Corte Aragonese e in seguito di quella della Corte Vicereale: i collari d’oro, arricchiti da grosse medaglie.