Età moderna

Nei secoli successivi a partire dal Cinquecento, con l’evoluzione della cultura umanistica lo stile della gioielleria diventa raffinato e molto curato. Tra le testimonianze del periodo ci sono gli inventari dei guardaroba delle persone illustri che descrivono ed elencano punto per punto tutti i gioielli posseduti. Uno tra tutti, quello della Duchessa d’Amalfi Silvia Piccolomini de’Aragona compilati tra il 1542 ed il 1543, elenca una vasta gamma di monili d’oro impreziositi con smalti colorati e pietre preziose, tra cui primeggiano diamanti, perle, zaffiri, agate, lapislazzuli, corniole, rubini, ametiste e coralli in grande quantità adoperati soprattutto per decorare lunghe cinture, una delle quali era decorata con «349 corallj rossi tondi intramezzati “con nasettj di corallj». Gli accessori si impreziosiscono ulteriormente di ricami con fili d’oro che favorirono anche l’evoluzione e l’accrescimento di qualificati artefici come tessitori, orefici, battiloro, ricamatori e sartori.

Ritratto di Dona Isabel de Requesens (vice-regina di Napoli), Raffaello Sanzio e aiuti. 1518 ca, ©Museo del Louvre, Parigi

Ma la lavorazione di preziosi non si limitò più solo alla gioielleria. Un altro grande ambito di intervento fu quello del vasellame d’argento, delle arti applicate che trovarono tra le principali committenze gli ordini religiosi che fecero a gara per abbellire gli edifici di culto, i numerosi conventi che dal Seicento a Napoli e in generale in tutta la Campania furono costruiti e ampliati (perché molti avevano origini antichissime) in ogni luogo e lungo le assi viarie di collegamento. Basti pensare alle grandi certose, al trionfo delle chiese dei Gesuiti e a tutti gli altri ordini che fiorirono in seno alla rinascita gloriosa della Chiesa. Era tutto un profluvio di candelabri, floreri, calici, reliquiari e statue devozionali la cui produzione trova il massimo splendore nella raccolta di busti del Tesoro di San Gennaro, composto da 54 statue realizzate tra il ‘600 e il ‘700, periodo in cui nella sola città di Napoli erano attivi oltre 300 laboratori orafi, che si calcola, lavorassero circa il 70% dell’argento disponibili in Europa. I livelli di eccellenza raggiunti sono ancora oggi sotto gli occhi degli astanti che restano ammirati di fronte alla Mitra gemmata di San Gennaro, che è forse il capolavoro assoluto dell’oreficeria perché esprime tutta l’esperienza, il virtuosismo ed il livello di professionalità raggiunto dai Maestri orafi della Corporazione. 18 chili di oro e 3964 pietre preziose (tra diamanti, rubini e smeraldi). Pe realizzarla, nel 1713, su commissione della Deputazione, l’artista napoletano Matteo Treglia, con bottega nel Borgo degli Orefici, impiegò all’incirca un anno e mise in moto una folta cerchia di collaboratori e botteghe.

 

Mitra gemmata del Tesoro di San Gennaro, realizzata nel 1713 dal Maestro Matteo Treglia e bottega

Si arrivò così al Settecento inoltrato che vide una produzione di gioielli ed accessori infinita, fornendo alla Corporazione degli Orafi un ruolo protagonista nella stagione artigiana di tutto il regno di Napoli. Intanto con la dominazione dei Borbone l’accrescimento culturale favorì ancora una volta le relazioni tra artisti del mediterraneo e non solo che si aggregarono alla scuola napoletana che intanto eseguiva lavori per tutto il Regno; basti solo pensare ai cantieri del Palazzo Reale di Napoli e della Reggia di Caserta (oltre a tutte le altre costruzioni che costellarono il territorio campano) a quante squadre di artigiani misero in moto per creare i stupefacenti arredi e accessori, vasellami, cornici e gioielli che non mancavano nei corredi di ogni famiglia nobile.

Nel 1808 toccò a Gioacchino Murat (nell’intervallo francese della dominazione borbonica) di promulgare le nuove regole per la lavorazione dell’oro e dell’argento, stabilendo nuovamente anche un nuovo marchio di garanzia, che: “consisterà in una testa di donna veduta di faccia, ornata in forma di Partenope, più grande pe’ lavori d’argento, ed alquanto più piccola pe’ lavori d’oro….”. Secondo le disposizioni del sovrano francese, il nuovo marchio doveva essere adottato uniformemente in tutto il Regno di Napoli. 

Bandò ornato da 9 topazi ovali (primo quarto del XIX secolo). Appartenuto a Carolina Bonaparte Murat.

Con Ferdinando I, dopo il suo rientro al trono che mise fine alla parentesi francese, il 15 dicembre 1823, con Real Decreto si stabiliva il “cangiamento de’ bolli” ed anche la rettifica del “sistema sinora tenuto nelle nostre officine di garanzia… che si rendono facili a potersi alterare”. Con le nuove disposizioni il sovrano intese soprattutto censurare il marchio istituito da Murat ed introdurne uno nuovo, che doveva rappresentare la restaurazione dell’antica dinastia dei Borbone; il simbolo scelto dal Re fu la testa di Partenope di profilo. Con questa regolamentazione, di alto valore simbolico, i marchi tenderanno inequivocabilmente a identificare tutti i manufatti del Regno con la Capitale, infatti, Ferdinando II nel Decreto emanato il 26 gennaio 1832, stabiliva l’introduzione del nuovo marchio per tutti i lavoro d’oro e d’argento che: “dovranno contenere il distintivo sella lettera N denotante nostrale….”.  Con il rientro dei Borbone, in generale, fu concessa agli artigiani maggiore autonomia e anche a benefici fiscali.

Del periodo borbonico restano numerose fonti d’archivio come la “Lista delle mie gioje”, compilata dalla regina Maria Carolina, accompagnata inoltre dall’apprezzo del gioielliere Pasquale Tufarelli, datata primo dicembre 1793. È una testimonianza di grande rilievo perché elenca diverse “gioje” con brillanti e perle, che la sovrana destina ai figli, alla nuora Clementina e ad altri suoi parenti. Tra gli oggetti più preziosi una “collana Grande di brillanti”, valutata 96.858 ducati, che la sovrana destina alla figlia Amelia insieme dei “braccialetti tutti di brillanti”; fra gli oggetti donati alla figlia Antonietta: “una pioggia grande con brillante color Rosa”, e alla figlia Maria Cristina, insieme ad altri preziosi, anche: “Fioccagli di perle”, del valore di 5630 ducati…

Maria Carolina d’Austria Lorena (attribuito a) Giuseppe Crestato, seconda metà XVIII secolo. La sovrana indossa un abito di gala decorato con gioielli definiti da perle e diamanti

Non solo, bisogna ricordare che proprio in età borbonica furono fortuitamente fatte le prime scoperte dell’antica Pompei dove tra l’altro vennero alla luce i gioielli ritrovati tra i corredi e che costituirono una nuova fonte d’ispirazione per i maestri orafi che assecondarono il gusto archeologico e neoclassico del tempo. Infatti, già alla fine del secolo XVIII tra le gioie della regina sono documentati (1802) monili di pregio come le “13 corniole sardoniche bellissime” che decoravano “un Cinturone d’oro”. In questo stesso periodo fu costituito il Laboratorio di Pietre Dure per la lavorazione e la conoscenza delle gemme.